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Opere dentro Castel Sant’Angelo Roma: Dipinti, Statue, Architettura

Hai intenzione di visitare una delle più importanti attrazioni di Roma e vuoi sapere quali sono le opere dentro Castel Sant’Angelo?

In questo post scopriamo insieme tutte le opere di Castel Sant’Angelo, a partire dalle statue, per poi parlare dei dipinti ed infine delle opere architettoniche.

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Cosa c’è dentro Castel Sant’Angelo

Opere architettoniche

Campana della Misericordia

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Questa campana, situata al centro del castello, è un’imponente struttura di bronzo con intagli decorativi che risalgono al periodo dell’Impero Romano. Utilizzata in passato per segnalare eventi importanti e per scopi religiosi, è un’icona della storia e della spiritualità del castello.

Capitello Corinzio

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Questo capitello, con i suoi intricati dettagli e la sua elegante forma, è un esempio superbo dell’arte architettonica romana. Decorato con foglie d’acanto e altri motivi ornamentali tipici del periodo, rappresenta la raffinatezza e la grandezza dell’architettura classica.

Stendardo dei Bombardieri di Castel Sant’Angelo

Realizzato in tessuto pregiato e riccamente decorato, lo stendardo dei bombardieri è un simbolo della forza militare e della gloria del castello. Le sue immagini rappresentano le gesta eroiche dei soldati che hanno difeso la struttura nei secoli.

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Dipinti

Cavalier d’Arpino, Ritratto di Prospero Farinacci

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Ritratto di Prospero Farinacci: Fonte Wikipedia

Nel Ritratto di Prospero Farinacci del Cavalier d’Arpino, ci troviamo davanti a un’immagine che cattura l’essenza di un uomo anziano e severo, seduto di fronte a un tavolo in uno studio sobrio. La sua espressione seria riflette la profondità dei suoi pensieri mentre tiene aperto un libro e indica con il dito una lettera rivolta al “Re Fiscale di Roma per Gioseppe d’Arpino“. Questa firma e dedica dell’artista all’uomo ritratto, il rinomato giureconsulto e avvocato Prospero Farinacci, sono dettagli che aggiungono un significato speciale al dipinto.

Questa opera, un raro esempio di ritrattistica del Cavalier d’Arpino giunta fino ai giorni nostri, è stata datata al 1607 da storici dell’arte. Quell’anno, l’artista fu coinvolto in un processo per il possesso illegale di armi da fuoco, un evento che ha segnato la sua vita e la sua carriera. Il Farinacci, in qualità di procuratore generale fiscale, potrebbe aver avuto un ruolo chiave in questa vicenda, e il ritratto potrebbe essere stato un gesto di gratitudine o anche una forma di ricompensa per i servizi resi.

Questa rappresentazione non solo ci offre uno sguardo sulla figura imponente del Farinacci, ma ci conduce anche nei meandri della storia e della politica del periodo, aggiungendo un fascino in più a questa preziosa opera d’arte.

Carlo Crivelli, Cristo Benedicente

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Le due piccole tavole, in origine parte di una pala d’altare che rappresentava l’Incoronazione della Vergine, facevano parte del complesso artistico che adornava la chiesa di San Francesco a Fabriano.

Questa pala, completata nel 1493 e firmata dal celebre Carlo Crivelli, era destinata a essere il fulcro della venerazione religiosa all’interno della chiesa. Le tavole, insieme ad altre dieci raffigurazioni di santi, facevano parte della predella che si collocava all’interno di una finestra ad arco.

Tuttavia, nel corso del Settecento, la chiesa fu soggetta a ricostruzione e l’opera d’arte fu rimossa. La pala centrale, che mostrava la Pietà e l’Incoronazione, è oggi custodita presso la Pinacoteca di Brera a Milano. La predella, invece, fu suddivisa e dispersa in varie parti, finendo in collezioni private in Francia e Ungheria.

Le due tavole in questione, raffiguranti il Cristo benedicente e il Sant’Onofrio, probabilmente occupavano rispettivamente il centro e l’estremità destra della predella, come suggerisce la disposizione delle figure e la loro relazione con lo spazio circostante.

Lo stile di queste opere è caratterizzato dal disegno preciso e meticoloso, tipico delle ultime fasi della carriera artistica di Crivelli, che predilige l’espressività dei dettagli più che la resa cromatica. Questo è evidente nell’intensa espressione del Sant’Onofrio, il cui volto tormentato trasmette una profonda emotività al pubblico osservatore.

Compianto su Cristo morto

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Il gruppo scultoreo intorno al corpo di Cristo appena deposto dalla croce è un potente ritratto delle sette figure dolenti che circondano il momento cruciale della storia cristiana. Nicodemo, giovane Giovanni Evangelista e le tre Marie si ergono accanto alla Vergine, facilmente identificabile per la sua tradizionale veste rossa e manto blu. Chiude il gruppo Giuseppe d’Arimatea, originariamente rappresentato con i chiodi della croce e il martello tra le mani.

Le figure mostrano una compostezza arcaica che si contrappone alle espressioni fortemente patetiche dei volti, creando un contrasto emozionante. Questa tradizione dei gruppi lignei dedicati a questo tema devozionale, di origine transalpina, si diffuse nell’Italia settentrionale all’inizio del Quattrocento, trovando grande successo nei secoli successivi.

L’autore del gruppo, purtroppo, rimane ignoto, ma recenti studi suggeriscono che potrebbe essere stato realizzato da una bottega specializzata, probabilmente di origine lombardo-piemontese ma attiva nell’area ligure. Tra i confronti proposti, si possono notare similitudini con il Compianto del Museo Civico di Arte Antica di Torino, opera di Domenico Mezzagora datata alla fine del XV secolo, e con il crocifisso ligneo nella chiesa di Sant’Ambrogio a Varazze, risalente al 1440-50, particolarmente per quanto riguarda la figura del Cristo.

Decorazione a grottesche – particolare (Cagliostra)

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Il gusto decorativo delle grottesche, che nel Rinascimento si trasformò in uno stile artistico autonomo, affonda le sue radici nelle antiche tradizioni degli ornamenti dipinti o a rilievo presenti negli edifici dell’antica Roma. Questo stile caratteristico si compone di una varietà di figure di dimensioni ridotte, realizzate in stucco o dipinte ad affresco, su uno sfondo neutro. Mascheroni, genietti, forme vegetali intricate, creature umane, animali e mostruose si alternano a scene mitologiche e paesaggi inseriti tra fantasiose cornici.

Le prime menzioni di questo tipo di decorazione risalgono a Vitruvio e Plinio, che le descrissero come elementi di svago per abbellire gli interni delle abitazioni. Esempi significativi di questo stile si trovano nella Casa di Livia a Prima Porta e a Pompei, tra cui la casa del Fauno, la Villa dei Misteri e la Casa dei Vetii. Nel XVI secolo, a Roma, le decorazioni a stucco degli archi del Colosseo ispirarono numerosi artisti, come Luzio Romano, che le riprodusse in molti disegni.

Tuttavia, la scoperta nel 1480 delle “Grotte” della Domus Aurea di Nerone a Roma diede un nuovo impulso agli artisti del Quattro e Cinquecento. Questi artisti, influenzati dagli ideali umanistici, consideravano l’antichità romana come un periodo d’oro per l’arte e la cultura. Artisti come Brunelleschi, Donatello e Raffaello esplorarono le Grotte, dando inizio a un revival artistico che coinvolse molti altri artisti del periodo, come Giovanni da Udine, Giulio Romano e Perin del Vaga.

Questa rinascita artistica trovò espressione nelle opere come la Loggetta e la Stufetta del Cardinale Bibbiena nel Palazzo Vaticano, nelle Logge Vaticane, in Villa Madama e negli appartamenti papali del Castel Sant’Angelo. La popolarità delle grottesche continuò nel corso dei secoli successivi, con artisti come i fratelli Zuccari che decorarono il Palazzo Farnese a Caprarola. Con la scoperta di Ercolano e Pompei nel XVIII secolo, il gusto per questo stile esuberante si rinnovò, influenzando anche le arti applicate.

Il Bagno di Dosso Dossi

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In questo dipinto enigmatico, un gruppo di uomini e donne si ritrova sulla riva di un fiume in una radura tranquilla. Alcuni di loro suonano strumenti musicali, mentre le figure nude suggeriscono un tema erotico. In primo piano, due amorini giocano con un cane e una scimmia, simboli che possono evocare sia la fedeltà che la lussuria.

L’autore di questa opera è Dosso Dossi, uno degli artisti più enigmatici del Rinascimento italiano. Questo dipinto, conosciuto come “Il Bagno“, è stato per lungo tempo identificato come la “bagnaria d’huomeni” menzionata da Giorgio Vasari nel camerino d’alabastro di Alfonso d’Este a Ferrara. Tuttavia, si ritiene che sia stato realizzato durante il periodo di formazione veneziana di Dosso, poco prima del 1514, quando si trasferì alla corte estense.

Le influenze principali nel tema e nella composizione provengono da artisti come Giorgione e Tiziano, nonché dall’ambiente culturale neoplatonico degli anni 1510-1513. Dosso fonde la naturalezza dei gesti con richiami all’antichità, come nel caso del modello dello “spinario” ripreso dalla giovane che si asciuga un piede in primo piano.

Questo dipinto, caratterizzato da un’atmosfera sognante e ricca di richiami simbolici, si distingue nel panorama della pittura italiana del primo Cinquecento. Rappresenta un momento importante nella carriera di Dosso, che si sviluppò ulteriormente presso la sofisticata corte ferrarese, dove l’artista divenne uno dei principali esponenti insieme al poeta Ludovico Ariosto.

Festino degli Dei – Copia da Giovanni Bellini

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In questa scena bucolica, al centro dell’attenzione si trova una riunione di personaggi mitologici. Mercurio è facilmente riconoscibile grazie all’elmo e al caduceo che porta con sé. Dietro di lui, un satiro trasporta su un vassoio vivande per un banchetto, seguito da altri personaggi. A destra della composizione, una ninfa dormiente, forse ubriaca, sembra essere oggetto di insidie. La scena sembra trarre ispirazione dall’episodio dell’omaggio a Cibele descritto da Ovidio nei Fasti.

Questo dipinto è una copia del XVII secolo di un’opera di Giovanni Bellini, realizzata probabilmente intorno al 1509 su commissione di Isabella d’Este a Mantova. Nel 1514, l’opera fu collocata nel camerino di Alfonso d’Este nel castello di Ferrara e fu ritoccata da Tiziano. L’originale, giunto a Roma nel 1598 a seguito dell’annessione di Ferrara allo Stato pontificio, è oggi conservato presso la National Gallery of Art di Washington. Una seconda copia, anch’essa databile al XVII secolo, si trova alla National Gallery of Scotland di Edimburgo.

Luca Longhi, Giovane donna con unicorno

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Giovane donna con unicorno: Fonte Wikimedia

Nel dipinto, una giovane donna è immersa in un paesaggio sereno e trasparente, seduta accanto a un unicorno e rivolta verso lo spettatore. Con un gesto invitante, la donna indica l’animale, che a sua volta sembra guardare verso di lei. Si ipotizza che la figura raffigurata sia Giulia Farnese, influente sorella del papa Paolo III, rappresentata con simboli araldici. La Vergine con l’unicorno, simbolo di purezza, era l’emblema della famiglia Farnese da diverse generazioni.

L’artista che ha creato questo ritratto è Luca Longhi, un pittore romagnolo noto per i suoi ritratti di famiglia e influenzato dallo stile leonardesco, specialmente per quanto riguarda l’uso della luce, soprattutto nei paesaggi che costituiscono lo sfondo delle sue opere. Alcuni studiosi, però, suggeriscono che l’autrice del dipinto possa essere stata la figlia del pittore, Barbara, di cui si sa poco. La composizione, comunque, si basa su un disegno di Leonardo conservato presso l’Ashmolean Museum di Oxford.

Lo sguardo malinconico e distante della giovane donna sembra congelare l’immagine in un momento di riflessione, quasi un monito o un simbolo. Questa idealizzazione potrebbe essere stata richiesta dalla famiglia committente, dato che l’opera è stata realizzata dopo la morte di Giulia nel 1524.

San Girolamo di Lorenzo Lotto

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In un paesaggio selvaggio e inospitale, il santo Gerolamo, figura paterna della Chiesa, è ritratto nella sua duplice veste di studioso e penitente. In primo piano, accompagnato dal fedele leone, simbolo della sua leggendaria amicizia con gli animali, si trova in una posa che evoca l’antica statua di un dio fluviale, assorto nella meditazione sulle Sacre Scritture. San Gerolamo è stato il primo traduttore della Bibbia in latino, e qui lo vediamo immerso nel suo lavoro di studio e contemplazione.

Nel lontano sfondo a sinistra, su uno sperone roccioso, si distingue la figura di San Gerolamo che si rivolge con fervore al crocifisso. Mentre lo sguardo del santo si volge verso destra, il paesaggio si ammorbidisce gradualmente, rivelando la presenza di un castello che richiama Castel Sant’Angelo per la sua forma e la vicinanza del ponte su un’ansa del fiume. Questa vista, corrispondente alla prospettiva dal Gianicolo, ha permesso di identificare la collocazione originaria del dipinto nella Chiesa di Sant’Onofrio, in particolare nella cappella dedicata a San Gerolamo, che apparteneva all’arcivescovo di Taranto Enrico Bruni.

Bruni, un influente membro della Curia Romana, favorì l’introduzione di Lorenzo Lotto presso le stanze vaticane nel 1509, dando così inizio alla prestigiosa carriera dell’artista.

Luca Signorelli, Madonna con Bambino e santi

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La pala d’altare, commissionata dalle monache del convento di San Michelangelo a Cortona e menzionata nel testamento dell’artista, rivela i tratti distintivi dello stile maturo di Luca Signorelli. Signorelli, che fu profondamente influenzato dalla scuola di Piero della Francesca, mostra chiaramente questa eredità, soprattutto nella brillantezza compatta dei colori e nella costruzione monumentale delle figure. Tuttavia, a differenza della compostezza tipica dello stile di Piero della Francesca, la sua opera denota un’attenzione maggiore al dettaglio anatomico e un dinamismo più pronunciato, frutto della sua esperienza fiorentina e dell’influenza di artisti come il Pollaiolo.

Questo stile innovativo suscitò l’interesse di giovani artisti come Michelangelo, che era presente con Signorelli alla corte di Lorenzo il Magnifico a Firenze. Signorelli, con il suo approccio che bilanciava una spiritualità austera, tipica del Medioevo, con una resa plastica estrema che sfidava gli schemi tradizionali della pittura del Quattrocento, si dimostra un perfetto testimone del periodo di transizione dei valori artistici alla fine del XV secolo. Questo contrasto si riflette anche nella sua opera più celebre, il ciclo dell’Apocalisse nella Cappella di San Brizio presso il Duomo di Orvieto (1499-1502).

Nella pala d’altare, che potrebbe essere stata la sua ultima opera, la figura della Vergine si distingue per la sua esecuzione magistrale rispetto agli altri personaggi rappresentati, come gli angeli e i santi. La Vergine, appena sollevata in volo su una nube di cherubini, emerge come una figura gigantesca in uno spazio dominato dagli altri personaggi. La pala è giunta al museo con una predella raffigurante Storie del Battista, la cui relazione con l’opera principale è stata messa in discussione fin dai tempi della sua donazione.

Pellegrino Tibaldi – San Michele Arcangelo

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Pellegrino Tibaldi, un pittore e architetto originario della Lombardia ma con una formazione artistica consolidata a Bologna, fece il suo ingresso a Roma probabilmente già nel 1543. Qui si distinse lavorando al fianco di Daniele da Volterra presso la Cappella Orsini a Trinità dei Monti e collaborando con Perin del Vaga nella decorazione della Sala Regia in Vaticano e di Castel Sant’Angelo.

Da Daniele da Volterra, Tibaldi acquisì uno stile fortemente plastico, chiaramente influenzato da Michelangelo, mentre da Perin del Vaga abbracciò un intellettualismo più raffinato. Prima della morte di Perin, Tibaldi si impose come uno dei principali esecutori dei suoi progetti a Castel Sant’Angelo, dimostrando anche una notevole autonomia nel processo creativo.

Nel dipinto dell’arcangelo Michele, protettore del castello, Tibaldi rappresenta la figura con un manto sontuoso e una corazza corta sospinti dal vento. La figura possente dell’arcangelo sembra muoversi con impeto in avanti mentre sguaina la spada, richiamando il momento leggendario dell’apparizione angelica sulla sommità del castello e la conseguente fine della peste.

Nel 1549, Tibaldi realizzò l’Adorazione dei pastori, ora conservata presso la Galleria Borghese, dove si possono notare le stesse forme scultoree dei personaggi, la loro gestualità intensa e una prospettiva che segue i loro movimenti. Dopo l’esperienza a Castel Sant’Angelo, Tibaldi portò avanti gli schemi compositivi appresi durante il suo soggiorno romano nel Palazzo Poggi a Bologna nel 1552.

Perin del Vaga – Alessandro Magno fa riporre in uno scrigno le opere di Omero

La scena ritrae il momento in cui Alessandro Magno ordina di conservare i poemi omerici in uno scrigno, un gesto che celebra la cultura raffinata e l’amore per i testi classici di Paolo III Farnese, il papa committente dell’opera. Questa scelta iconografica mette in risalto la somiglianza tra il papa e il sovrano macedone dell’Antichità, noto non solo per le sue imprese militari, ma anche per il suo legame con Aristotele.

Perino del Vaga, il pittore responsabile dell’affresco, realizzò i cartoni preparatori per questa scena e lasciò la realizzazione pittorica ai suoi collaboratori, seguendo così la pratica ereditata dal suo maestro Raffaello. Pellegrino Tibaldi e Domenico Zaga, che subentrò alla guida del cantiere dopo la morte di Perino, si occuparono principalmente dell’esecuzione dei riquadri monocromi lungo i due lati maggiori del salone.

La Sala Paolina fu decorata tra il gennaio e il luglio del 1547, e oltre alla scena degli scrigni con i poemi omerici, furono dipinte altre scene legate ad Alessandro Magno. Sul lato destro del salone, accanto alla scena degli scrigni, si trovano rappresentazioni di Alessandro che taglia il nodo di Gordio e della sua clemenza verso la famiglia di Dario. Sul lato sinistro, invece, si notano scene di Alessandro che mette pace tra due commilitoni e che consacra le arche dell’Alleanza.

Nonostante le diverse mani coinvolte nell’esecuzione, le scene risultano stilisticamente omogenee. La monumentalità delle figure e il tono solenne del ciclo decorativo rimandano al confronto diretto con capolavori come il Giudizio Universale di Michelangelo nella Cappella Sistina.

Perin del Vaga – Amore e Psiche

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Il riquadro più celebre all’interno della Sala di Amore e Psiche a Castel Sant’Angelo è stato progettato da Perin del Vaga, insieme agli altri che compongono il ciclo ad affresco. L’ispirazione per questo lavoro è stata tratta dalla tredicesima delle 33 incisioni create dal Maestro del Dado e da Agostino Veneziano, basate sui disegni dell’artista fiammingo Michiel Coxcie tra il 1532 e il 1535, molto popolari all’epoca.

Il riquadro è diviso in tre momenti distinti, seguendo l’ordine temporale da destra a sinistra. Nella parte destra, Psiche si ferisce con la freccia di Amore, avvolta nell’ombra. Al centro, Psiche, tenendo una lampada, si avvicina al suo sposo addormentato, che ha abbandonato le sue armi. Nella parte sinistra, Amore, sveglio e deluso, vola via lasciando Psiche disperata, come narrato nel libro V, capitolo 23 dell’Asino d’Oro di Apuleio.

Se la composizione segue fedelmente il modello dell’incisione, lo stile di Perino del Vaga si manifesta pienamente nel modo in cui rappresenta la scena. Il suo stile combina armonie naturalistiche raffaellesche con un’intellettuale astrazione, influenzata dal sofisticato manierismo di Rosso Fiorentino e del Primaticcio.

La scena centrale si apre verso lo spettatore come un palcoscenico, delimitato dal baldacchino del letto e illuminato dalla lampada tenuta da Psiche, che riflette la luce sulle figure. Le figure degli amanti sono modellate con morbidezza, con arti lunghi e slanciati, che si stagliano sul bianco delle lenzuola contrastando con i tendaggi rossi.

Questo ciclo di affreschi sulla fiaba di Amore e Psiche è stato un punto di riferimento per altri lavori simili, realizzati dopo la metà del XVI secolo, come quelli presenti a Palazzo Spada Capodiferro e Palazzo Vitelli a Sant’Egidio, entrambi realizzati nel decennio successivo.

Perin del Vaga – Perseo

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La realizzazione del soffitto e del fregio della Sala di Perseo avvenne tra l’agosto del 1545 e il maggio del 1546, contemporaneamente ai lavori intrapresi nelle sale adiacenti di Amore e Psiche e Paolina, oltre che nella Sala Regia in Vaticano. È probabile che le storie di Perseo, progettate da Perin del Vaga come testimoniano i numerosi disegni preparatori, siano state completate da collaboratori. Tuttavia, ciò non toglie che il ciclo ad affresco sia di altissima qualità pittorica.

La scena conclusiva comprende tre episodi distinti. Sulla sinistra, Perseo è raffigurato chino, le sue armi deposte, tornato dall’impresa che lo ha visto sconfiggere il mostro marino minaccioso nei confronti di Andromeda. Questo episodio è rievocato in secondo piano alle sue spalle. Dalla testa recisa di Medusa, il sangue che sgorga fa nascere miracolosamente il corallo, mentre fanciulle danzanti nelle acque del mare assistono a questo prodigio. A destra, in lontananza, si svolge il banchetto nuziale tra Perseo ed Andromeda in un’architettura aperta, dietro alla quale si intravede una città immersa in un’atmosfera irreale.

Il dinamismo quasi cinetico che fonde diverse sequenze della storia nello stesso spazio colpisce l’osservatore. La fedeltà al disegno dell’opera finita dimostra che l’autonomia dell’esecutore (probabilmente Domenico Zaga o Prospero Fontana) fu limitata rispetto alla fase progettuale, garantendo così una sostanziale omogeneità con il resto del fregio. Gli episodi rappresentati, culminanti nel felice banchetto nuziale, simboleggiano il ritorno all’ordine e all’armonia dopo il trauma della Riforma.

Ambrogio Zavattari e bottega, Polittico

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Il polittico attribuito agli Zavattari è stato datato tra il 1444 e il 1450 dal critico Roberto Longhi, basandosi su confronti stilistici con il ciclo di affreschi che illustra le Storie di Teodolinda nel Duomo di Monza. Questo ciclo, datato 1444, è un’opera autografa della famiglia Zavattari, che furono tra i principali esponenti del Gotico cortese in Lombardia.

Cinque delle sette tavole del polittico sono giunte al Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo incluse in una cornice ottocentesca neogotica. Le altre due tavole, raffiguranti S. Benedetto e Sant’Antonio Abate, sono state identificate come parti dello stesso polittico nel 1957 e acquisite dal Museo solo nel 2000.

La collocazione originaria del polittico rimane sconosciuta, ma è stata avanzata l’ipotesi che potesse essere stato destinato all’altare del Duomo di Milano, data la presenza di Sant’Ambrogio e San Vittore, due santi particolarmente venerati nella città lombarda.

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San Michele Arcangelo di Raffaello da Montelupo (Raffaele Sinibaldi)

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La statua di San Michele Arcangelo, attribuita allo scultore e architetto caro a Paolo III, è stata identificata grazie al rinvenimento dei pagamenti effettuati tra luglio ed ottobre del 1544. È l’unica scultura pervenuta tra le numerose rappresentazioni dell’Arcangelo che un tempo adornavano la sommità del castello prima della sostituzione avvenuta nel Settecento.

Nella statua, San Michele indossa una veste lunga, in linea con la tradizione iconografica tardomedievale, mentre l’elmo ai suoi piedi presenta una forma comune nella prima metà del XV secolo. La corazza è trattenuta da spallacci che mostrano il Giglio Farnese, simbolo della famiglia del committente, e il capo, di dimensioni sovradimensionate, si giustifica per la collocazione originaria, che prevedeva una visione dal basso verso l’alto.

La statua originaria aveva ali in metallo dipinto e dorato, perforate per ridurre l’attrito del vento. Si ritiene che questa versione sia piuttosto fedele al prototipo realizzato attorno al 1450 per Niccolò V, andato perduto nell’esplosione del 1492. Tuttavia, il volto dell’Angelo mostra una particolarità, richiamando quello della statua di Lia nella tomba di Giulio II in San Pietro in Vincoli, dove il Montelupo, lo scultore di questa opera, collaborò con Michelangelo.

La statua di San Michele fu restaurata da Gian Lorenzo Bernini nel 1660 dopo un grave danneggiamento e nel 1752 fu sostituita da una statua bronzea di Pieter Anton Verschaffelt. È stata trasportata dapprima in una nicchia della cordonata di Paolo III e poi collocata nel cortile che ne prende il nome nel 1910.

Peter Anton Verschaffelt – San Michele Arcangelo

statua dell'angelo

Nel 1746, Papa Benedetto XIV Lambertini indisse un concorso per la realizzazione di una nuova statua dell’Angelo per Castel Sant’Angelo, in occasione del Giubileo del 1750. Il vincitore di questo concorso fu il fiammingo Peter Anton Verschaffelt, che aveva ricevuto la sua formazione a Parigi presso lo scultore Edmé Bouchardon e si era già distinto a Roma come ritrattista del papa.

La realizzazione della statua incontrò alcune difficoltà dovute alla grande quantità di metallo necessaria. Fu fusa a Civitavecchia da Francesco Giardoni e inaugurata sulla sommità di Castel Sant’Angelo solo il 28 giugno 1752. Originariamente, la statua era rivestita da una superficie dorata, ad eccezione della corazza che era ricoperta da lamine d’argento.

La statua dell’angelo, composta da 35 pezzi, fu realizzata con la tecnica della fusione nota come “a forma buona”, una variante della tecnica della “cera persa”. Una intelaiatura interna, composta da due perni principali incrociati, venne utilizzata per sostenere la struttura. Questa intelaiatura originale è stata sostituita nel 1986 con una in acciaio inossidabile e titanio ed è ora esposta nella Sala della Rotonda.

Busto dell’Imperatore Adriano

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Frammenti di capitello

frammento di capitello

Frammenti di statue

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Busto di Adriano

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Busto di Togato

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Queste opere, con la loro varietà e bellezza, arricchiscono il patrimonio artistico del Castel Sant’Angelo, offrendo ai visitatori un’esperienza indimenticabile e un viaggio attraverso la storia e l’arte.

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